Il gioco nelle relazioni familiari di Elena Passerini
Ho ricominciato a giocare verso i trent’anni, fuori dall’ambito familiare, soprattutto grazie a Sigrid Loos e ai suoi giochi cooperativi. A seguito di quella semplice esperienza così sorprendente e vivificante mi sono occupata in vari modi di gioco. Ho giocato con gruppi di bambini ma soprattutto di adulti, di animatori e insegnanti, e ho imparato a osservare il gioco e a scoprirne e descriverne i molti significati durante i corsi di formazione. Abbiamo fatto due libri. Ci siamo occupati di gioco e ambiente, gioco e percezione sensoriale, gioco e riappropriazione della città, gioco e fiducia, gioco e creatività, gioco con i rifiuti, ultimamente persino gioco e psicodramma, ma non gioco in famiglia. Per questo ho trovato così stimolante questo tema che mi è stato richiesto, così provo a dare un contributo anche se non posso essere presente.
Sembra una cosa così scontata, giocare in famiglia, sembra ovvio!
Eppure, se proviamo a pensarlo in una prospettiva storica ed educativa, questo tema potrà risultare molto più spinoso di quanto sembra. Per questo vorrei proporvi una serie di immagini da lasciare alla vostra riflessione.
Esiste tutto un repertorio di giochi affidato tipicamente alla tradizione familiare, giochi fatti dagli adulti per i più piccoli: trotta trotta cavallino, le filastrocche recitate prendendo la mano e le dita del bambino … le nonne sono esperte di tutto ciò. Ma anche il cu-cù e le versioni più infantili del nascondino, il gioco che Freud chiama Fort-da, cioè il bambino che butta il rocchetto o il cucchiaio giù dal seggiolone per 500 volte, sono giochi che hanno un profondo significato psicologico nella storia del legame tra la madre e il bambino e probabilmente si perdono nella notte dei tempi. Nel libro La strada dei bambini ho parlato del papà che “corre” dietro al bambino e gli dice “ti prendo, ti prendo!”. È un’immagine bellissima che può far capire molte cose agli animatori. Sono tutti giochi per i piccoli e durano pochi minuti.
Però per il bambino più grandicello, capace di relazioni sociali, la tradizione del gioco prendeva altre vie: non più i nonni o la mamma, ma fratelli, cugini, amici del cortile o della strada.
E qui abbiamo già incontrato una prospettiva storica.
Ho lavorato più volte con metodo autobiografico con adulti di varia età e provenienza e ogni volta, quando ricostruivamo i luoghi, i modi e i tempi del gioco infantile, scoprivamo che i bambini giocavano “sempre!”, cioè in tutto il tempo non occupato da obblighi scolastici o domestici o fisiologici. E i bambini giocavano sempre senza adulti, anzi, le rare figure di adulti rimasti nella memoria erano visti come invasori da tenere alla larga. Oppure le meno anziane ricordano figure di adulti che si sapeva che esistevano, come la portinaia, la mamma a casa, la lattaia, potevano anche essere un punto di riferimento in caso di bisogno, ma certamente non intervenivano nel gioco e nemmeno “controllavano” in senso stretto.
Ora viviamo nell’epoca dei cortili e strade ridotti a parcheggi, della scomparsa delle bande infantili, dei gruppi spontanei di bambini, della grande percentuale di figli unici privati di tempo libero e soli, dell’estinzione della millenaria cultura orale dei giochi infantili. Ma anche nei quartieri nuovi ben costruiti, con le macchine seppellite nei garage o con molti giardinetti privati, non si vedono tanti bambini giocare. Non si tratta solo di un problema urbanistico di soffocamento degli spazi pubblici e mancanza di partecipazione progettuale, né solo del “malessere” o “disutilità da ingorgo” conseguente a un modo poco razionale di conseguire il “benessere”.
È in atto un mutamento culturale ed educativo di cui facciamo fatica a descrivere i complessi confini e soprattutto a comprenderne fino in fondo le conseguenze.
È in corso una rivoluzione educativa silenziosa che pervade tutto. Nell’ambito familiare il passaggio è stato definito “dalla famiglia etica alla famiglia affettiva”. La nuova rivista “Conflitti” si propone proprio di fare un po’ di luce su questi temi. Daniele Novara, presentandola in provincia di Milano, ha usato un’immagine molto forte e provocatoria: “non possiamo passare dal padre che tira fuori la cinghia per farsi ubbidire al padre che tira fuori i burattini per far divertire i bambini! Siamo al grottesco!”.
I genitori sono rimasti colpiti e pensierosi. Spesso si trovano in mezzo a un doppio fuoco di esperti: quelli che dicono che bisogna giocare con i figli, condividere il loro tempo, ora Novara ci dice che un conto è giocare, tutt’altra cosa è far giocare i bambini.
Ma cosa succede concretamente nelle famiglie?
Qui sarebbe molto utile una attenzione e una disponibilità ad ascoltare e a osservare le diverse situazioni concrete. A volte sono i bambini, anche “grandi”, a chiedere ai genitori di giocare. I genitori fanno quello che possono, cercando di conciliare le diverse esigenze familiari. Cercano spazi per organizzare le feste di compleanno, visto che in casa c’è poco spazio. (Ma davvero le case sono più piccole che in passato? O non c’è spazio perché sono più ingombre di cose?)
Ma cosa succede quando gli adulti giocano con i bambini?
Provate a osservare (o auto osservare) questa speciale relazione. Io in luoghi diversi, ai giardini, al Tempo per le Famiglie, in casa mia, ho assistito a episodi interessanti che dal mio punto di vista sono problematici.
Ne elenco alcuni:
– Spesso l’adulto che gioca esprime in modo più o meno velato il desiderio di insegnare qualcosa al bambino, con la parola o l’esempio (ad esempio il nome dei colori, oppure che il cubo va nel buco quadrato e il cilindro in quello tondo e non viceversa).
– Invece i bambini imparano sì giocando, ma spontaneamente, facendo esperienze libere, non “per obiettivi”. L’adulto rischia facilmente di togliere il gusto della scoperta al bambino, facendogli vedere come si fa nel modo giusto. Quindi l’intenzione di insegnare rischia di avere come effetto la banalizzazione delle esperienze che il bambino vive sotto il profilo della scoperta autonoma.
– I ritmi e i tempi dell’adulto e del bambino nel gioco e nella relazione con gli oggetti sono completamente diversi. Un bambino di 10 mesi può giocare per un tempo notevole con un barattolo di yogurt, un cucchiaio e un sasso, “inventando” una quantità di giochi che un adulto non può nemmeno immaginare. Questo succede se l’adulto non interviene. Invece spesso l’adulto che gioca col bambino esprime i suoi tempi e ritmi e gusti in un modo più forte del bambino, tende a guidarlo. Il risultato è l’impoverimento del gioco. Un esempio tra tutti: la monocultura calcistica che ha soppiantato le decine e decine di diversi giochi con la palla che la tradizione infantile conosceva e aveva inventato. Oltre all’influenza della TV, comprata e accesa inizialmente dai genitori, c’è anche l’influenza dei padri che vedo giocare immancabilmente a calcio anche con figlie piccolissime.
– Spesso gli adulti non hanno un granché voglia di giocare, se non per pochi minuti, il che è ovvio e non sarebbe affatto un problema. Lo diventa se si sentono costretti a farlo lo stesso, e inevitabilmente esprimono la loro fatica e mancanza di spontaneità. Il fatto è che il gioco è uno spazio di libertà e di creatività (inclusa la creazione di regole) che non può essere prescritto, nemmeno a se stessi. Quindi l’adulto che non ha voglia di giocare non può farsela venire. Il fatto è semplicemente che gli adulti non sono affatto buoni compagni di gioco per i bambini, che farebbero meglio a giocare fra di loro.
Che fare allora?
Nel dilemma tra giocare e far giocare ci può venire in aiuto un gioco linguistico che ci offre un punto di vista diverso. In tedesco non avrebbe nemmeno senso dire “far giocare”, viene sentito come una assurdità a livello linguistico. Si dice spielen lassen che vuol dire lasciar giocare i bambini.
È quello che gli adulti hanno sempre fatto nella storia, dedicando pochi secondi ad aprire la porta per lasciar uscire i bambini e qualche minuto in più per recuperarli la sera. Adesso le cose sono più complicate, il sistema sociale non aiuta. Lasciar giocare i bambini può diventare una intenzionalità consapevole e operativa degli adulti, politica. Ma questa intenzionalità, consapevole del valore educativo irrinunciabile del gioco, non è rivolta ai bambini in modo diretto.
Lasciar giocare i bambini significa riconoscere il loro diritto al gioco e aprire i conflitti latenti che questo comporta. Lasciar giocare i bambini vuol dire cambiare i regolamenti condominiali che vietano il gioco e introdurre regole che lascino spazi e tempi ragionevoli; può significare forse litigare con qualche vicino di casa insofferente; può significare intraprendere iniziative a livello cittadino.
Tutto il contrario del tentativo di conciliare l’impossibile e sforzarsi di rispondere direttamente e in prima persona alla richiesta fatta dai bambini di avere compagni di gioco.
Come ognuno di noi sa, se ripensa alla sua infanzia, i bambini devono poter giocare, sempre!
(Daniele Novara, Elena Passerini, La strada dei bambini, 100 giochi di strada, Edizioni Gruppo Abele, Torino, 1999)